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Placebo d'amore
Ho sonno ma la fatica nelle ossa mi impedisce di dormire. Sono le ore piccole del ventuno di marzo. Anche se ufficialmente è già primavera, questa notte tenta ancora di nevicare.
Ieri mattina mi hanno portato una viola raccolta in giardino. Era striminzita e sapeva di niente, come tutto in questa bella stagione per modo di dire dove il sole sembra essersi perso per strada e non si è presentato all’appuntamento col suo stesso equinozio. Povera viola, appassiva solo a guardarla e non c’è stata acqua santa abbastanza da farle rialzare il capo una volta strappata alla terra. Ripenso a quand’ero bambino. Le viole allora avevano un colore sfacciato e un odore forte, pungente, quasi di stalla. I mazzolini legati stretti con il filo verde da ricamo spiccavano nei vasetti, sui candidi centrini inamidati e abbellivano le stanze per settimane intere. Profumo di violetta dicevano, come fosse stato delicato; mentre io continuavo ad arricciare il naso, i nonni sul comò non ci facevano caso e mantenevano il sorriso nonostante gliele avessero messe quasi in faccia. Invece, da un po’ di tempo a questa parte, è come se la Terra s’ingravidasse solamente per consuetudine e per noia, sempre nelle stesse date. Sembra che non le importi di attendere le migliori condizioni, di adattarsi ai suoi stessi mutamenti, quasi sfidasse di proposito la sorte e così esponesse al rischio di enormi difficoltà i propri figli e quelli destinati ad una luce di tepore potessero invece nascere in tempi di freddo e miseria. Corpi deboli, come il mio.
Però a me appariva tutto normale. Mia madre mi sorrideva, mi accudiva, mi lavava e mi nutriva a cucchiaini come faceva con gli altri due fratelli più piccoli di me. Non c’era differenza. Non ce ne fu nemmeno quando compresi che una differenza c’era eccome, quando loro cominciarono ad arrangiarsi con le posate e io no, dal momento che i sorrisi si moltiplicarono. Sentivo discorsi soffocati che mi davano una spiegazione di contrabbando sul perché: mia madre sussurrare che ero nato prematuro, mio padre piegato in due prometteva al crocefisso di faticare anche per me fino alla fine dei suoi giorni purché non me ne andassi prima io, e il dottore ribadire che purtroppo avrei sempre avuto un fisico infelice e di conseguenza un’esistenza precaria. Ma le cose intorno a me giravano lo stesso, o me le portavano o mi portavano da loro, e io imparavo tutto. Anche a non fare promesse, decisi con il tempo: a mio padre si crepò il cuore nel giorno della mia prima laurea, costringendomi a mormorare un grazie al suo cadavere, a denti stretti e lacrime furiose per quella scommessa che si era giocato come ai dadi. Non so se fu il mio destino, storto solo a metà rispetto al corpo, o tutti i baci che avevo sempre ricevuto in fronte, ma almeno la mia testa funzionava bene.
Sento un brivido rizzarmi i capelli ma non è di freddo. Le finestre sono ben chiuse e io, del mio giaciglio, non ho spostato nemmeno un lembo di coperta. Sono i ricordi che mi rincorrono, così veloci da sorpassarmi e farmi credere ancora una volta di essere sempre vissuto senza un futuro da raggiungere. Inutilmente. E’ paura, che mi invade le viscere e si scarica fra le mie gambe in una cascata di vergognosa impotenza. Suono il campanello e Flora compare immediatamente, stropicciandosi appena un po’ gli occhi. “Scusa” le dico “è stato un incidente”. “Non fa niente” mi risponde ”forse è colpa mia. Le prugne sarà meglio che le mangi io che ne ho bisogno e posso anche correre!” esclama poi, sorridendo come se fosse pieno giorno. Flora è davvero speciale, sembra nata senza il vizio della differenza. Delle differenze ne fa un uso tutto suo, compensando ogni suo difetto con una mia virtù, e viceversa.
Quando morì mia madre, comunque, fu la prima volta che toccai il senso della parola disperazione. Poco m’importava di essere riuscito in tante cose nella vita, ben oltre la sfida primaria di sopravvivere a me stesso: non c’era nulla di razionalizzabile nel separarsi dall’amore, non c’era formula. Non c’erano conti matematici a dimostrarmelo, né letteratura che potesse lenire. Se solo ne fossi stato capace mi sarei strappato il muscolo dal petto, se solo avessi potuto avrei strappato ognuno di questi maledetti fili e tubi. Se ne fossi stato in grado sarei morto anch’io. Finalmente. Chi meglio di me, in fondo, sapeva che ero nato giusto giusto per morire? Eppure neanche volendolo morivo. Sembrava tutto normale, come lo era sempre stato: intorno a me, ancora, si sarebbe mossa la macchina di persone e cose che era stata messa in moto per farmi vivere la vita. Assistenti e infermieri avrebbero accudito il mio corpo mentre il mio cervello lavorava, produceva, creava, insegnava.
Flora è Flora. E non è poco. Il giorno in cui capitò qui, come un ingranaggio di ricambio, ultimo tentativo di ripristinare la macchina dei soccorsi che io sabotavo costantemente opponendo continui rifiuti, era prima dell’ora ora di pranzo. Si intrattenne per un po’ in cucina con chi l’aveva preceduta, poi si presentò nella mia stanza con una mela. Io me ne stavo girato dall’altra parte, incurante, sprezzante della sua presenza. Si era seduta accanto al letto, aveva preso silenziosamente a morsi la mela, l’aveva masticata e sputata delicatamente su un piattino. “Vuoi questa o preferisci l’omogeneizzato?” mi chiese sbattendo ritmicamente il cucchiaino sul bordo del piatto. Era come se non fosse per niente affar suo tutto il tempo che sarebbe trascorso da lì alla mia decisione, alla mia fame, al mio cedimento e perfino alla mia morte, e lo ingannava al suono di una qualche musichetta allegra che le passava per la testa. La odiai, e la rabbia per quella che io stavo considerando una mancanza di rispetto al mio dolore, fu così tanta ed inaspettata che le risposi una cosa che mai mi sarei sognato di rispondere, o anche solo di pensare. “Quella!”, grugnii. Fui così sorpreso dal mio stesso tono che mi misi immediatamente in allerta, aspettandomi che a sua volta lei mi si rivolgesse ancora, ostinata e adirata, o mi ficcasse tutto il cucchiaio in gola. Speravo solo che se ne andasse, magari sbattendosi dietro la porta in un fragore definitivo di legni e vetri. Invece no. Posò il piattino e disse “Bene, bene. Abbiamo la favella. Di là c’è pollo arrosto con le patatine, vado a prendertelo e te lo taglio fino fino”. Insisteva a darmi del tu, notai, ma non mi domandavo se mi infastidisse o cosa; intanto lo notavo come un evento per me inusuale. Stavo reagendo, e ragionando. Di fatto era questo da annotare.
Mia madre era l’amore. Non mi perdonava le sciocchezze, mi dava spesso torto istigandomi alla ragione. Se così non fosse stato io non le sarei sopravvissuto e non avrei capito, fra tutte le altre cose, che il dolore per la separazione altro non è che l’ultima, straziante conferma di un sentimento ricevuto e dato. Mi aveva cresciuto alla stessa identica maniera degli altri suoi figli, come se anche questo mi spettasse perché la salute compromessa non poteva essere un alibi al rammollirmi lo spirito. Grazie a lei avevo preso una certa confidenza con le emozioni e tuttavia rimanevo confinato sull’altra faccia dell’amore, quello immateriale, incompiuto. E quindi, ora, anche irripetibile. Flora somiglia a mia madre, per come mi tratta. Non mi è riuscito di mandarla via, anche se ci ho provato, Dio solo sa quanto. Siamo pressappoco coetanei, ma non fu certamente per questo motivo che lei fin da subito ritenne di non dover mantenere le distanze. Semplicemente per lei le distanze sono come le differenze, non esistono, e se esistono vanno colmate. A forza, se serve, quando è importante. Dopo l’episodio della mela ce ne sono stati altri e diversi, scontri e contrasti. Reagivo e ragionavo. Ma torno sempre a quello e mi chiedo se, davvero, sarei stato in grado di prendere in bocca quel cucchiaino se non per tentare di morire una buona volta, di schifo. Eppure mi piace, Flora. Mi piace come mescola il caffè del dopopranzo, prima il mio e dopo il suo, lentamente, perdendosi un po’ nell’accompagnare con gli occhi il vortice scuro nella sua tazzina e finendo sempre come si ridestasse appagata da un bel sogno, succhiando con sincera noncuranza il cucchiaino mentre mi racconta di questo o quello. O mi ascolta. Io glielo devo dire. Tanto non c’è pericolo che possa essere frainteso, non è di sesso che si parla: io l’ho sempre valutato dal di fuori, una condizione fisica e una questione umana che però non mi riguardano. E lei non ne vuole più sapere da quella volta antica, questo l’ho capito fra le righe. Era rimasta incinta per sbaglio e dell’uomo sbagliato. Proprio quando aveva imparato ad amare il bambino che portava in grembo, e che sarebbe nato da lì a poco, questi se n’era andato tragicamente portandosi via con sé anche la possibilità di nuove gravidanze, e la probabilità di ricevere un altro perdono dai suoi genitori, agognato fino allo sfinimento, qualunque peccato avesse commesso. Così lasciò tutto e tutti. Me lo aveva raccontato così, senza troppo ricamarci sopra. Quasi un regalo quella breve confidenza, come a dire “Siamo pari. Non ti lamentare troppo, tu”, e aveva liquidato l’argomento con un gesto della mano, agitata nell’aria a scacciare un pensiero molesto come una mosca. Credo che lei lo abbia proprio deciso di essere diversa, di non aver voluto approfittare di un fisico apparentemente sano per farci qualche cosa d’altro, solo per passatempo o per divertimento. Si cura quel che basta, senza strafare, senza esagerare nemmeno nell’attirare l’attenzione al contrario. Piuttosto d’essere compatita, una come Flora partirebbe per la guerra. Suppongo che nessuno come una donna a cui è stato fatto credere di aver fallito, di essere incapace di crearne uno, possa temere il futuro. Ma è disposta ad aggredire il presente, dissanguandosi per una causa che ritiene giusta.
L’ amore? Flora l’amore lo pronuncia senza pronunciarlo mai, come si fa con certe malattie o con la felicità, per il timore di evocarle o di farsela scappare. E’ un rischio ma glielo devo proprio dire che non mi schiferebbe un cucchiaino leccato. O direttamente un bacio. Domani, domani glielo dico. No. E’ già oggi. Oggi a pranzo glielo dico. Le dirò cara Flora di primavera sì domani oggi glielo dico ho sonno domani Flora il cucchiaino mia madre l’amore il caffè ho sonno domani …
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